martedì 19 ottobre 2010

#9

Mi spostavo
per farti posto
Mi portavo
mi mettevo seduta
sul davanzale come una pianta
Freddo di marmo alle cosce
luce di vetro alle spalle
Il mistero delle cose appoggiate

Mi sentivo un pendolo
dondolavo le gambe
misuravo il tuo tempo
Il mio tempo non esiste
E'un soffione soffiato via
molte molte ore fa

mercoledì 6 ottobre 2010

Agosto: mosche

Ma che cielo strano, oggi, si direbbe ispirato, con le ombre delle nuvole basse sui tetti, e macchie di una luce calda, morbida, riposante.
La mosca è appoggiata alla ringhiera del balcone. Sono sicura che fra poco entrerà di nuovo in casa, dalla finestra aperta. Odio il suo ronzìo, quel rumore sporco, come lei, contaminante. Ogni giorno ne entrano due o tre e vagano fastidiosamente per il salotto e per la cucina, appoggiandosi dappertutto. A volte si avventurano fino in camera da letto, ne ho trovate già due, morte stecchite sul legno del pavimento. Avevano perso la strada per uscire e hanno dovuto terminare lì, morte di fame probabilmente, la loro brevissima vita.
Le odio ancora di più da quando ho capito da dove vengono, e i miei dubbi hanno ricevuto conferma: qualche giorno fa sono andata a buttare la spazzatura, in un angolo del cortile separato da una porta che si apre fra i garage. E' un fazzoletto di terra putrida incastonato fra muri muti, dove sono cresciuti arbusti molli e frondosi, sempre più alti perché mai tagliati, e lì si trovano, uno di fianco all'altro lungo il perimetro del muro, i bidoni della spazzatura: plastica, secco -che sarebbe "indifferenziato", praticamente-, umido e vetro. Carta e cartoni stanno accatastati in un angolo - loro non hanno un bidone, poverini-. Era tarda mattinata e faceva caldo, come oggi, e non appena aprii la porta di quel giardino degli orrori, mi vennero addosso in ordine sparso varie mosche, inquietate dal mio arrivo. Tendevano a gravitare soprattutto attorno al bidone dell'umido dal quale proveniva un odore indescrivibile, insopportabile, osceno. Aprii il bidone e vi buttai rapidamente il mio sacchetto. Buttai in fretta anche il resto della spazzatura, infastidita se per sbaglio mi si inumidivano le mani al contatto con i coperchi liquamosi, e scappai fuori.
Più tardi, sul divano, la vidi. La mosca. Si ricominciava, come ogni giorno, con l'avanti e indietro, a spasso per casa mia. Mi venne in mente l'immagine di una discarica. Un'enorme discarica putrescente, fetida, viva, marcia, calda, sempre più grande. Come fare? Come fare ad eliminare tutto questo schifo? Siamo noi e ci vive accanto, e le mosche ce lo ricordano, è la nostra ombra, il nostro carro, la terra dove verremo seppelliti quando gli insetti, soli, trionferanno sull'infernale lordura che ci travolgerà tutti. O forse no. Forse alcuni di noi sono come le mosche.

martedì 20 luglio 2010

#8

Inconscia ricerca
dalle muse mutevoli e selvagge
Non t'ascolto
se guardo un paesaggio
di girasoli, dal finestrino del treno.

Ariel

Io dormii nella stanza del Sole.
Quella della Luna era occupata.

Ci sono persone le cui storie sembrano procedere diritte, quasi avessero un senso principale, o un principio guida. Poi invece ci sono persone le cui storie procedono a tentoni, a tentativi, con continue inversioni, incroci e sovrapposizioni. Ariel era una di quelle, come me.
E fu lungo una curva -o dietro un angolo, non ricordo- del mio arzigogolato percorso che la incontrai, incrociando la sua labirintica strada. Per un attimo dunque, le nostre traiettorie intersecandosi, condividemmo un tratto di cammino.

Dormiva in un angolo del divano, rannicchiata e bianca, mentre fuori dalla finestra un temporale estivo rinfrenscava l'aria.

La città in cui ci conoscemmo e la città in cui più avanti la incontrai avevano una cosa in comune, fra di loro e con noi due: anche le loro strade, di pietra, strette ed in salita, si snodavano senza senso, in un susseguirsi di angoli, scorci, stradine e mura, così che quando si imboccava una via non s'era mai sicuri che non si trattasse in realtà di un vicolo cieco. Città fatte apposta per perdersi. Come noi, appunto.

A Granada la conobbi. Ma fu a Perugia ch'ebbi occasione di vederla da vicino. E fu una piccola epifania l'accorgermi d'aver trovato una nuova sorella fragile, una gemella, un pesciolino luccicante e splendente come la luna. Ariel era come una strada di campagna durante la notte, cosparsa di mille pietre e che, inerpicandosi fra cespugli odorosi, scompariva poco più in su, o si nascondeva nella vegetazione, e chissà dove andava a finire. Forse in riva a un fiume, o forse in una surreale piazza illuminata dalla luna, con una fontana nel mezzo, che canta alla luna mille storie di silenzio in una lingua che non capirà mai nessuno e che anche se qualcuno la capisse poi non riuscirebbe mai a spiegare a qualcun'altro che cosa stia dicendo.

E se non s'estingue mai 'sta sete, 'st'ansia, e se s'estinguesse sarebbe perché i miei occhi si sono chiusi per sempre, e se dura solo un attimo la sensazione per cui vivo, quella luce, quello spiraglio, e il resto è un farfugliare confuso, una sinfonia barocca e ondeggiante, e soltanto poche volte e sempre come per caso quando dal picco dell'onda spicco il salto riesco, se riesco a stare lì sospesa per un attimo, prima subito cercavo un appiglio in mezzo ai barbagli, cercavo di aggrapparmi a qualcosa che stesse sempre su, ma non trovavo mai nulla e ora quindi ho smesso. Se ho smesso di cercare appigli, e penso solo a vivere quei momenti egoista e sola, è perché so che nulla c'è che possa tenermi sempre lì, e che ogni secondo vale milioni milioni di vite ma smetterà subito e allora sguazzo in ciò che mi viene concesso senza pensare a niente, senza cercare più alcuna formula. E ringrazio ogni abisso perché sarà lui a regalarmi poi la cima per spiccare il salto più alto.

Così felice può essere soltanto
chi ha avuto il presentimento della sua morte.

Ed è quando una bambina non cresce
che soffre di più
E paga la bellezza dei suoi piedini
con fiumi di lacrime
E muore giovane
anche a novant'anni
E hanno iniziato ad ucciderla
quando è nata.






#7

Tu, che hai avuto il cuore di imbrattare
il mio cuore
senza sapere nemmeno dire
cosa pensi, cosa vuoi
Tu dovresti morire
per quel poco che rimani
E io che ti regalo le mie pietre
e tu che nemmeno le guardi
Non so cosa vedessi di me
ma di sicuro non mi hai amata
e io non ho amato te.
Ero solo come una gazza attratta
dallo sfavillare del tuo deserto.

Ma io non sono una gazza
Quello che hai ucciso era la finta me
Ti ho ingannato mentre
cercavo di ingannarmi
E ora io volo via
E tu rimani vuoto
come sempre sei stato
Sfavilla lontano da me
A me spetta il mare aperto
Che gli scorpioni scavino il tuo cuore
Il mio imbrattato lo disinfetterò
con acqua marina.
Ho fame di pesci luccicanti.

venerdì 18 giugno 2010

WELCOME HOME

Incazzarsi a morte per quisquilie, conoscendone fin troppo bene il sottotesto.

Monza, giovedi 17 giugno, ore 1 di notte.
Attraversando il centro per andare alla macchina, mi fermo fuori da un bar per chiedere una sigaretta al cameriere, che e' li fuori che chiacchiera e fuma.
Gliela chiedo, me la da'.
Tempestivo, un signore con camicia a righine e ciuffo bianco, seduto ad uno dei tavolini, dice al cameriere, con spiccato accento e tono aggressivamente sarcastico:
"Oh, ma diGLI che dentro ce le hai, le sigarette."
Nel senso che se voglio fumare posso comprarmi un pacchetto al distributore automatico probabilmente presente all'interno del locale.
Lamentabilmente, io in queste situazioni non ho mai la presenza di spirito per rispondere a tono.
Ma se fossi stata un po' piu' pronta, avrei potuto rispondergli, a quel vecchiaccio impiccione, con le parole che, pochi secondi dopo la conclusione dell'episodio, hanno iniziato a sgorgare dalla bocca contratta del mio stomaco, purtroppo muto causa la mancanza di corde vocali.
E gli avrei detto:
"Senti, stupido, vecchio, inutile borghesotto brianzolo lampadato e senza un cazzo da fare, capisco che tu -e probabilmente nemmeno te ne rendi conto- sei un frustrato che fa una vita di merda e non sa cosa significhi divertirsi, e vivi da sempre in un posto dove la maleducazione e la scortesia sono tradizione popolare radicata. E capisco anche che tu, tipico esempio di industrialotto lombardo che nella sua vita e' sempre stato al posto di chi comanda e mai al posto di chi lo prende in culo, tu, spiritosa testa di cazzo che all'una di notte si attarda in un bar quasi vuoto perche' a casa ha solo una moglie che non lo sopporta, tu, che ti diverti a mettere in imbarazzo per una cazzata una come me, tu, col tuo culo grasso e peloso e le tue scarpe di marca, che mi fai solo tristezza e non lo sai e ti permetti di fare commenti inutili, scortesi e sgrammaticati mentre io non ti ho nemmeno rivolto la parola in effetti, tu, fallito della vita convinto invece di essere un figo realizzato e arrivato, tu sei un coglione, e dovresti rivedere un attimo il tuo punto di vista, e soprattutto dovresti andartene immediatamente affanculo.
Guarda, questa sigaretta, questa preziosissima sigaretta che io, parassita, cosi inappropriatamente mi sono permessa di chiedere al cameriere che me l'ha concessa non senza un certo disappunto (cazzo! Ma stiamo parlando di una sigaretta, porca troia!), be', insomma, questa fottutissima sigaretta io, ora, rinuncerei a fumarmela, solo per potertela invece infilare su per quel culo schifoso, insieme anche ad una trave di legno scheggiato.
Cosi potrei vedere se, provando almeno una volta in vita tua a prenderla in culo, abbasseresti la cresta e capiresti che, in fondo ma neanche troppo, sei solo un povero stronzo. Vorrei vederti piangere, pirla."

Invece non gli ho detto nulla.
Casa. Che bello essere tornata dalle mie parti.

Peace and love

LAST DAYS

Assistiamo impavidi all'inesorabile
srotolarsi delle nostre vite.
Inconsapevoli da tempo immemore
le guardiamo svolgersi a scatti, a volte
lentamente, altre volte precipitando.
Precipitiamo.
"La morte e' un processo rettilineo."

***

Mi lascero' alle spalle anche questa citta'
ribollente di ricordi, io
Sopraffatta dai ricordi a tratti,
a tratti grata di esserne costituita
Come la pellicola di un film
girato in presa diretta
seguendo solo il canovaccio
di uno sceneggiatore schizofrenico.

***

I cicli finiscono.
Riconosco le mie verita'.
Giorgia e' sempre giorgia
E l'incubo e' cangiante:
a volte sembra un sogno.

I cieli si muovono
gli occhi si chiudono.
Non tocchero' mai piu' la tua pelle
E il tuo abbraccio
gia' lo sento straniero.

En las nubes

Dal letame nascono i fiori.
Senza più debiti smetto
di sentirmi defraudata
mi fermo sui miei piedi
mi guardo con i miei occhi

Il mio fuoco si apre e stringe
l'obiettivo diviene piu' nitido
Sciolta le tensione nelle spalle
regolo il diaframma trattengo il respiro
e sbatto le palpebre su questo
momento di lucidita'
pomeridiana
estiva.

#6

Gli uomini sono simboli
senza significato

E mi sorprende a volte
il vuoto assoluto che scopro
dietro alle cose

domenica 2 maggio 2010


martedì 13 aprile 2010

Trittico sopra una fine

I. Cose da pazzi

Una volta un pazzo mi ha detto che
dopo la morte della Speranza
Arriva l'alba.

Perduta in questo tempo immobile
non ascolto la fame e passo i giorni in un'attesa
sterile, come Penelope se Ulisse fosse morto
tra le braccia di Circe o annegato
nel mare delle Sirene.

Più che al centro dell'universo mi sento
incastrata in un suo angolo buio.

Aspettando l'alba


II. Nonora, nonqui

Strano e male fu quella volta
e a me doleva dentro.

Ero arida, per te,
Avida,
ti lasciai scappare
Stupefatta.

Eppure in questo deserto,
sono contenta.


III.

E si spense così
senza un ruggito nemmeno
il più forte sogno di quel lungo inverno
cui per secoli mi tenni avvinghiata
come un Cristo che stringa al petto
la sua corona di spine

martedì 23 marzo 2010

Lo show dei cachi

Si commenta da solo... Guardarlo.
http://www.youtube.com/watch?v=A-t2yY5dsi4

domenica 21 marzo 2010

Animali di città

Granada, domenica pomeriggio. Pioggia. Non diluvio, ma pioggia.
Ci sono i miei che sono venuti a trovarmi e decidiamo, visto il tempo, di andare a vedere un film al cinema.
Il cinema si trova in un centro commerciale, e, quando arriviamo, ha un che di postapocalittico la visione che mi si para innanzi: i negozi del centro commerciale sono tutti chiusi. Di aperto ci sono solo il cinema, i bar e i fast-food (uno dei quali si chiama Food Factory, e il nome mi sembra già tutto un programma) ma comunque il centro pullula di gente che, trovando quasi tutto chiuso, vaga spaesata per gli ampi corridoi illuminati al neon e si va a raccogliere nei vari punti di ristoro.
Dalle parerti di vetro di più di un fast-food si scorgono le gabbie da criceti per bambini, dove essi giocano sotto vetro fra mille palline colorate con i colori primari e strutture di rete a più piani.
Da piccola avevo paura delle palline colorate: non riuscivo a capire cosa ci fosse sul fondo, sembrava infinito, mi sembrava di trovarmi nelle sabbie mobili...e temevo che se vi avessi affondato troppo la mano avrei potuto farmi male. Mi facevano senso, tutte quelle palline di plastica, e poi c'erano quelle che erano state schiacciate e che si riconoscevano al tatto perché avevano il bordo. E tutti quei bambini, che correvano urlando su e giù. No, non mi fidavo molto delle palline colorate, quando ero piccola, anche se devo ammettere che erano spassose, tutto sommato.
Altri bambini, un po' più grandi, invece si intrattenevano facendo su e giù, sdraiati sul tappeto mobile che collega i vari piani del centro, mentre esemplari umani più adulti disfruttavano delle poltrone-massaggiatrici campione poste in più angoli dei corridoi.
L'atmosfera che regnava era di attonita tranquillità, e i mille suoni presenti, quelli delle voci, quelli della radio, la musica che usciva dai vari locali, si disperdevano nell'ambiente dagli alti soffitti a volta, mescolandosi e producendo una leggera eco.
Solo io, apparentemente annoiata, sentivo salire dentro di me un'ondata di inquietudine, simile al panico. E mi è già tanto familiare ormai, quell'onda, che quasi non mi fa più paura. Ma la strana sensazione alla bocca dello stomaco e ai polmoni, quella specie di apnea, resta, e la riconosco, ed è più o meno la stessa di quando mi trovavo nella gabbia delle palline colorate. Solo che ora la gabbia è molto più grande.

giovedì 18 marzo 2010

Il sogno della gamba

Ho sognato che mi mancava una gamba. Forse perché mi ero addormentata con una gamba impigliata nei pantaloni del pigiama, e nel sonno mi dava fastidio..non so.
Nel sogno sono nuda, completamente sola su un'enorme nave di legno, spoglia e senza vele, in mare aperto, sotto un cielo terso e luminosissimo.
Sono preoccupata per il fatto di non avere più la gamba destra, e non riesco a capire come sia possibile.
E d'un tratto dalle acque di fronte alla nave emergono prima la schiena e poi anche il muso di una balena, bianca luccicante per il riflesso del sole sulla sua pelle bagnata. La balena mi parla, mi dice: "Anche la madre di dio aveva una sola gamba." E poi torna ad immergersi.
Il tempo cambia repentinamente, e il cielo si riempie di nuvole nere. Iniziano a piovere gambe, e a cadermi addosso o intorno a me, sulla nave. Sento il contatto della pelle fredda di quelle che mi colpiscono, ed è una sensazione strana, ripugnante. Mi metto alla disperata ricerca della mia gamba. Devo trovarla, non so dove ho sentito che una parte del corpo staccata si può riattacare entro sei ore dall'incidente, passate le sei ore, non si può più fare nulla, il corpo rigetterebbe l'arto. E so, non so come, ma so, che non sono ancora passate sei ora da quando mi hanno amputato la mia.
Cerco affannosamente la gamba, in mezzo a tutto quel cadere di pezzi umani. La nave si sta riempiendo a vista d'occhio di mucchi di gambe, tutte gambe di donna. Mi è faticosissimo muovermi con una gamba sola, mi arrampico su cumuli di gambe.
Finalmente trovo una gamba che sembra essere la mia! Sì, sì, è proprio la mia, devo cercare di riattaccarmela... Ma ora che torno a guardarla, m'accorgo che quella che ho in mano ha la pelle troppo, troppo scura, e non può essere la mia gamba! No, questa non è decisamente più la mia gamba.
Disperata, ma comunque tranquilla, senza agitarmi, fredda, mi butto in mare e tento di inghiottire più acqua possibile, per cercare di annegarmi.
Il sogno finisce.

lunedì 15 marzo 2010

Iperrealismo






Queste sono alcune delle opere del giovane artista granadino Juan Francisco Casas, che disegna quasi tutto con la biro!!! Ne potrete trovare altre su www.juanfranciscocasas.com.


Axis mundi

Stesa nel sole di un pomeriggio di marzo, ascoltava scorrere il rumore del fiume e dei suoi pensieri, che arrivavano e scivolavano via naturali, giocando come la luce con l'ombra tra le foglie degli alberi su cui le gemme si preparavano a sbocciare in un'attesa silenziosa.
Silenziosa e partecipe si lasciava travolgere da quella cascata di sole, cercava di essere natura nella natura, e percepiva con piacere la gioia del suo corpo, della sua pelle, dei suoi muscoli, delle sue ossa, delle sue narici, di tutta se stessa sentendosi parte di un meccanismo dolce ed irrefrenabile quale era la vita in quell'istante, ed allo stesso tempo libera, come il cielo di quel giorno.
E lì, sotto il costante, tiepido, pervadente bacio del sole sulla sua pelle di luna, tra i pensieri che scivolavano nella sua mente ce ne fu uno che rimase incagliato in un qualche scoglio dell'immaginazione e con la sua luce risvegliò l'attenzione della ragazza, che giaceva come assopita, con gli occhi socchiusi.
Con un sussulto del petto ed uno sbarrarsi rapido di occhi subito richiusi, la ragazza si ricordò di quando facevano l'amore.
Quando facevano l'amore diventavano il corpo unico e perfetto di un dio, che godeva immensamente della sua esistenza al centro dell'universo.
Tutto il cosmo sembrava girasse intorno al loro corpo, sintonizzandosi su quel'armonia di movimenti e di respiri che scandiva un ritmo magico, primordiale, che poteva non avere mai avuto inizio, né essere destinato ad avere una fine.
Era una festa sacra a cui partecipavano tutti gli elementi, il mondo nel suo disordine scompariva o meglio, si trasfigurava ed appariva come era veramente, dietro al velo dell'illusione e della separatezza quotidiane, lei e lui erano i sacerdoti semidivini che officiavano il rito più antico e sacro che esistesse, e unendosi divenivano un dio dai sensi spalancati sul presente, un presente di piacere immenso e di unione completa, e quel dio si convertiva nella sfera di energia, nel fuoco creativo totale, devastante che immediatamente precede il formarsi di una nuova vita, o di un nuovo universo.
E anche se nella vita quotidiana la separazione la faceva soffrire e lei cercava di seguire la geografia dei suoi umori come si segue la mappa dell'isola del tesoro, per giungere ad accarezzare il suo segreto, quando facevano l'amore lei quel segreto poteva toccarlo direttamente, lo sentiva senza parole dentro di sé, se ne lasciava sommergere, e le onde del suo mare si fondevano con le onde del mare di lui, formando un'unica onda maestosa.
Quando facevano l'amore la storia scompariva, e con lei lo spazio ed il tempo. E loro due in un solo corpo venivano proiettati al centro del cosmo, e per un momento infinito ne divenivano l'asse, il fuoco, il motore, e a lei sembrava che tutto fosse d'un tratto più chiaro, più semplice ed armonioso: non c'era da preoccuparsi se era quella l'essenza dell'universo, e senza dubbio lo era, lo era così evidentemente.
Ed entrava così a fondo in lei quella sensazione divina, la animava con una forza tale da lasciarla incredula e semivuota quando s'accorgeva che l'amore era finito e che lei era di nuovo lei e lui di nuovo lui e che fuori dalla finestra, al piano di sotto, la vicina friggeva il pesce mentre nella strada le auto continuavano a passare con dentro persone che si recavano in mille luoghi diversi.
Probabilmente, finito il loro turno, un'altra coppia era già pronta per unirsi e sostituirli al centro del cosmo, alimentando il suo motore al ritmo più antico che si possa immaginare e che scandisce il muoversi dell'universo da tempo immemorabile.

Riaprì gli occhi, sola nel tramonto, il rumore del fiume sembrava essersi fatto più forte, i raggi del sole, obliqui, la scaldavano un po' di meno, e i suoi pensieri tacevano.
Si sentiva particolarmente tranquilla, circondata da quella natura pacifica, abbandonata in quel luogo qualsiasi dell'universo di cui lei era solo uno dei tanti fuochi vagabondi.


martedì 9 marzo 2010

Uno, nessuno, centomila scoiattoli

"Una cosa nominata è una cosa morta, ed è morta perché è separata." (Antonin Artaud)

Sono uno scoiattolo e di solito abito a Bologna, nel parco di Villa Spada.
Dai ricordi e dalle immagini che ogni tanto si presentano davanti agli occhi della mia mente, una grande parte della materia che ora forma il mio organismo deve già essere stata quella di un essere umano. In un'altra vita.
Devo confessare che in realtà io, e non solo in quanto scoiattolo, mi auguro non ci sia nessun principio di reincarnazione, che il mio sia solo un caso, e che prima o poi, alla fine di questa silvestre vita o di un'altra, la mia luce si spenga completamente, la mia mente si dissolva finalmente, la mia memoria taccia.
Anche se mi sembra piuttosto difficile, a dire il vero, che la vita scompaia così facilmente.
La vita, questa scintilla di caso che così rocambolescamente a partire da un microbo ha trascinato con sé tutto questo, tutta la natura con i suoi mille e mille organismi, a effetto valanga.
Ecco, mi sembra difficile che una cosa così minima e tenace si fermi.
Anzi vi dirò, io, certo, in quanto scoiattolo ignorante, ma sono del parere che anche se scoppiasse una bomba biologica, o nucleare o all'idrogeno, così potente da far saltare in aria tutta la Terra, ebbene anche in tal caso, qualche plancton, qualche virus, qualche ameba si salverebbe e verrebbe scagliato dall'esplosione nell'universo a bordo di una roccia sulla quale viaggerebbe per un tempo indeterminato sino ad approdare su di un altro pianeta e lì dare il via ad una nuova colonizzazione. C'è addirittura chi pensa che sia proprio così che la vita è arrivata sulla Terra.
Ci sono microrganismi, monocellulari ed anaerobi, che sopravvivono per tempi lunghissimi congelati a temperature incredibilmente basse. E, non appena passa il freddo, sono pronti a ripartire.
Converrete con me in merito allo scetticismo che nutro sulla possibilità che la vita si fermi. Magari un meccanismo cessa di funzionare, si spegne, si rompe, ma non si butta via nulla, e tutto rimane nel ciclo variegatissimo della vita.
I cinesi da questo punto di vista ci hanno capito sicuramente molto di più dei cosidetti "occidentali", ognuno dei quali invece è intimamente convinto di avere un senso preciso nel cosmo, anzi, un compito speciale, che lo rende unico e importantissimo. L'individuo al centro. Macché! Presso gli scoiattoli è tutto molto più semplice, anche se a volte devo ammettere che mi annoio un po'.
E quando m'annoio, leggo un libro. Sì, perché una delle eredità, per così dire, della coscienza che animava precedentemente alcune parti di me, è la capacità di leggere. L'ho scoperto trovando, un giorno, un libro aperto sul prato. E nel parco di Villa Spada, dove solitamente m'aggiro, c'è una biblioteca. Mi capita quindi, talvolta, dato l'estremo piacere che traggo dalla lettura e l'estrema (e stranissima, per uno scoiattolo) noia che a volte m'assale, di organizzare piccole incursioni all'interno dell'edificio, per curiosare e occasionalmente anche per sottrarre alcuni volumi, di piccole dimensioni, ovviamente.
Nel libro che stavo leggendo fino a poco prima di iniziare a raccontare a voi, ad un certo punto c'è scritto:
"Se i popoli, man mano che il tempo trascorreva, hanno rifatto gli dèi a loro immagine; se essi hanno spento l'idea fosforescente degli dèi, e, partiti dai nomi con cui li racchiudevano, si sono rivelati impotenti a risalire attraverso i contatti concentrici delle forze, attraverso la magnetizzazione applicata e concreta delle energie, sino alla scarica iniziale, sino alla rivelazione del principio che questi dèi vogliono manifestare, bisogna prendersela storicamente e frammentariamente con quei popoli e non con i princìpi, e ancor meno con quell'idea superiore e totale del mondo che il Paganesimo ha voluto restituirci. E poiché le idee, in fondo, non possono essere giudicate che nella loro forma, si può dire che, preso nel tempo, lo svolgersi innumerevole dei miti, al quale risponde, nei sotterranei ricolmi dei templi solari, l'accumularsi sedimentario degli dèi, non ci dà più l'idea della formidabile tradizione cosmica che è all'origine del mondo pagano, non più di quanto le danze dei giocolieri orientali e i giuochi di prestigio dei fachiri che vengono a esibirsi sulle scene europee siano atti a renderci lo spirito di liberazione senza immagini o il misterioso sconvolgimento d'immagini venuto da un gesto veramente sacro.
Lo spirito sacro è quello che rimane attaccato ai princìpi con una forza d'identificazione oscura che assomiglia alla sessualità, - alla sessualità sul piano più vicino ai nostri spiriti organici, ai nostri spiriti ostruiti dallo spessore della loro caduta. Questa caduta di cui io mi domando se essa rappresenti il peccato. Perché sul piano cui si elevano le cose, questa identificazione si chiama l'Amore, di cui una forma è la cavità unversale, e l'altra, la più terribile, diviene il sacrificio dell'anima, cioè la morte dell'individualità."

Cioè...

(Nota: sia la citazione all'inizio che quella alla fine sono tratte da: Eliogabalo o l'anarchico incoronato, di Antonin Artaud, ed. Adelphi 1991, traduzione di Albino Galvano.
La prima edizione dell'Héliogabale è del 1967.)
(Nota 2: In realtà, questo libro non è presente nel catalogo dei libri della biblioteca di Villa Spada.
O meglio, lo era fino a quando non sparì misteriosamente. Era stato riconsegnato l'ultima volta ma poi non lo si era più trovato. Nessuno pensava valesse la pena di ordinarne un'altra copia per sostituire quella scomparsa, che contava veramente pochi lettori. Per cui il titolo fu spennato dal catalogo. Ma in realtà il libro era stato rubato da uno scoiattolo, e lo si scoprì poco dopo. L'episodio finì nella cronaca bolognese con articoli pubblicati su vari quotidiani locali -City, il Bò, Leggo e Il Resto del Carlino.)

LINEA 20

Fu così che mi persi.
Ero alla fermata dell'autobus e aspettavo il 36 per andare alla stazione dei treni.
Dovevo prendere il treno. Ma poi arrivò il 20 e io, sovrappensiero come al solito, vi salii.
Non appena me ne accorsi scesi dall'autobus, ma mi trovai in una via di Bologna che non riuscivo a riconoscere.
Dov'ero? Strano, il percorso del 20 lo conoscevo a memoria eppure ora... era come svanito dalla mia mente, così come mi sembrava impossibile riuscire a non perdere il mio treno.

Avete presente quella sensazione di straniamento che si prova in certi momenti, quando si è come assorti in qualche pensiero muto, che però inconsciamente ci assilla e ci tiene concentrati, in quieta pensierosità, totalmente distratti da ciò che accade all'esterno, il corpo abbandonato all'automatismo? Ebbene, se vi è mai capitato, forse avete notato che in quei momenti è come se ci fosse solo un filo a tenerti dentro alla realtà, in bilico su un baratro di frasi, immagini, pensieri nudi.
Che poi non è nulla, ma la mente a se stessa certe volte le cose se le dipinge in modi strani, ambigui... E hanno un bel da dire quelli che tranquillamente negano l'esistenza del nulla.
Comunque, scendendo da quell'autobus sbagliato a quella fermata anonima di una città che dopotutto non conoscevo a fondo, io ruppi il mio filo di connessione con la realtà, con la città reale, e finii in una città altra, in cui non mi ritrovavo.
I miei pensieri mi avevano fatta scivolare ed ora mi ero persa. E c'era quel treno che non potevo perdere. Non volevo perdere. Non potevo. Mia mamma, la mia famiglia... dovevo andare a trovarli! E poi quanto tempo perso, a perdere i treni..Ho perso un sacco di tempo nelle stazioni, anche se in effetti non ho mai perso un treno... Ed ora...chissà!
Dovevo trovare la strada.

(To be continued...?)

ci vuole per forza un titolo

Attendo presagi
Scrutando le nuvole in questo cielo terso
disegno me stessa migliaia di volte.

Senza sentiero, in una foresta di raggi,
non so che farmene delle parole,
non so che farmene di questo sole
nella cui luce strizzo gli occhi,
bianca, asfissiata
Attendo presagi

E so che questa solitudine m'accompagnerà
per il resto della vita.

sabato 6 marzo 2010

Cassandra: nada de eso es realidad

"C'era una volta una fanciulla. E questa fanciulla la natura l'aveva dotata di un dono molto particolare: riusciva ad osservare le cose così in fretta da riuscire a prevedere il futuro. Poteva intuire come sarebbe andata a finire con un buon anticipo. Potremmo chiamarlo sesto senso, o quinto senso e mezzo, capacità osservativa o iperdeduttività.
Il fatto rimane lo stesso: vedeva tutte le implicazioni di una situazione stendersi davanti ai suoi occhi. All'improvviso, e quasi fosse una specie di semidea, la sua prospettiva si sdoppiava e una parte di lei poteva osservare la situazione da leggermente più in alto e capire, o immaginare, come avrebbe potuto svilupparsi e quale dopotutto sarebbe stato, fra i vari futuri potenziali, quello che avrebbe preso il sopravvento.
Ma, in realtà, nella vita di tutti i giorni, ciò, anziché darle potere, le creava un tale accumulo di responsabilità, e preoccupazioni e ansie da portare sulle spalle che lei non sapeva ancora gestire. Non poteva migliorare. Poteva solo prevedere, almeno per il momento.
Quindi, non essendo un'eroina, o una dea, nè una persona normale ed ignara, si era scelta una sorta di ruolo da spettatrice, a volte divertita a volte più coivolta, ancora inesperta e delicata, ancora alle prime armi nel maneggiare i fili delle marionette.
Delusa e affascinata dal prevedibile ma inestricabile garbuglio delle relazioni umane.
Prevedibile ma inestricabile, come una maledizione."

Neve

Fu come una nevicata in città,
Magica ed effimera.
L'incanto di un momento rallentato,
Una parentesi, una scusa per tutti

E poi quell'inconsistente sfiorare
che mette i brividi.
E la luce negli occhi.

Anche il saluto fu come con la neve:
un "Arrivederci!" detto con complice sorriso.
Arrivederci a non si sa quando.
Ma di sicuro arrivederci.

Green Queen

Verdeggiante
siedo al bancone
del mio caffé preferito
aspettando una ritardataria
cronica.

C'è buona musica nell'aria
e la gente attacca bottone e brinda
con spontanea facilità.

Anche se oggi piove
mi piace questa città piccola
dove parlare è semplice
E pure se sono solo di passaggio
penso che ci starò bene.

Forse anzi lo penso proprio
per questo: perché l'idea di
Essere solo di passaggio
mi dà sollievo.

LE NOZZE DI PETER PAN

Non forse a tutti è capitato, ma coloro ai quali è successo mi capiranno perfettamente quando parlo di quella sensazione di disagio, di vergogna verso se stessi quasi, provata scoprendosi ad intenerirsi davanti a un marmocchio particolarmente carino, a commuoversi davanti ad un bacio appassionato o a deprimersi al pensiero di non trovare nessuno con cui invecchiare, dipingendosi già vecchi e soli ed acidi e sterili.

Bene, in me tutti questi lampi di pensieri hanno sempre destato una certa inquietudine: “Che succede? Sto invecchiando? Mi si sta svegliando l'istinto materno? Mi sto rincoglionendo?”. L'inquietudine e la paura di diventare proprio come, nella tracotanza adolescenziale, ci siamo giurati di non diventare mai, di diventare proprio come quelli che, sotto sotto, abbiamo sempre un po' disprezzato, come quelli che pensavamo non avremmo capito mai. E invece adesso....ci sembra quasi di capirli un po', e non solo di capirli, ma magari di condividere con loro sensazioni, aspirazioni, ideali.......COSA? Ma stiamo impazzendo?? Delirando? Siamo pazzi? Siamo vecchi? Siamo borghesi? E l'asfissìa che fino a poco fa, fino all'altro ieri, ci assaliva al solo nominare certe cose, quell'asfissìa da vagabondi immortali così consolante, che fine ha fatto?

Ed è così caro, e al tempo stesso buffo, il sollievo che si prova quando si nota, con compiacimento, al vedere passare per la strada una macchina d'epoca, bianca, con a bordo due novelli sposi, lo sfuggirci irresistibile di un pensiero: “OMMIODDIO! RAGAZZI, AVETE APPENA FATTO LA CAZZATA PIU' GROSSA DELLA VOSTRA VITA!”. E un sorriso compare sornione sul viso : “Oh! Ciao, rieccoti e bentornata, cara, vecchia, lucida sindrome di Peter Pan!”.