martedì 20 luglio 2010

#8

Inconscia ricerca
dalle muse mutevoli e selvagge
Non t'ascolto
se guardo un paesaggio
di girasoli, dal finestrino del treno.

Ariel

Io dormii nella stanza del Sole.
Quella della Luna era occupata.

Ci sono persone le cui storie sembrano procedere diritte, quasi avessero un senso principale, o un principio guida. Poi invece ci sono persone le cui storie procedono a tentoni, a tentativi, con continue inversioni, incroci e sovrapposizioni. Ariel era una di quelle, come me.
E fu lungo una curva -o dietro un angolo, non ricordo- del mio arzigogolato percorso che la incontrai, incrociando la sua labirintica strada. Per un attimo dunque, le nostre traiettorie intersecandosi, condividemmo un tratto di cammino.

Dormiva in un angolo del divano, rannicchiata e bianca, mentre fuori dalla finestra un temporale estivo rinfrenscava l'aria.

La città in cui ci conoscemmo e la città in cui più avanti la incontrai avevano una cosa in comune, fra di loro e con noi due: anche le loro strade, di pietra, strette ed in salita, si snodavano senza senso, in un susseguirsi di angoli, scorci, stradine e mura, così che quando si imboccava una via non s'era mai sicuri che non si trattasse in realtà di un vicolo cieco. Città fatte apposta per perdersi. Come noi, appunto.

A Granada la conobbi. Ma fu a Perugia ch'ebbi occasione di vederla da vicino. E fu una piccola epifania l'accorgermi d'aver trovato una nuova sorella fragile, una gemella, un pesciolino luccicante e splendente come la luna. Ariel era come una strada di campagna durante la notte, cosparsa di mille pietre e che, inerpicandosi fra cespugli odorosi, scompariva poco più in su, o si nascondeva nella vegetazione, e chissà dove andava a finire. Forse in riva a un fiume, o forse in una surreale piazza illuminata dalla luna, con una fontana nel mezzo, che canta alla luna mille storie di silenzio in una lingua che non capirà mai nessuno e che anche se qualcuno la capisse poi non riuscirebbe mai a spiegare a qualcun'altro che cosa stia dicendo.

E se non s'estingue mai 'sta sete, 'st'ansia, e se s'estinguesse sarebbe perché i miei occhi si sono chiusi per sempre, e se dura solo un attimo la sensazione per cui vivo, quella luce, quello spiraglio, e il resto è un farfugliare confuso, una sinfonia barocca e ondeggiante, e soltanto poche volte e sempre come per caso quando dal picco dell'onda spicco il salto riesco, se riesco a stare lì sospesa per un attimo, prima subito cercavo un appiglio in mezzo ai barbagli, cercavo di aggrapparmi a qualcosa che stesse sempre su, ma non trovavo mai nulla e ora quindi ho smesso. Se ho smesso di cercare appigli, e penso solo a vivere quei momenti egoista e sola, è perché so che nulla c'è che possa tenermi sempre lì, e che ogni secondo vale milioni milioni di vite ma smetterà subito e allora sguazzo in ciò che mi viene concesso senza pensare a niente, senza cercare più alcuna formula. E ringrazio ogni abisso perché sarà lui a regalarmi poi la cima per spiccare il salto più alto.

Così felice può essere soltanto
chi ha avuto il presentimento della sua morte.

Ed è quando una bambina non cresce
che soffre di più
E paga la bellezza dei suoi piedini
con fiumi di lacrime
E muore giovane
anche a novant'anni
E hanno iniziato ad ucciderla
quando è nata.






#7

Tu, che hai avuto il cuore di imbrattare
il mio cuore
senza sapere nemmeno dire
cosa pensi, cosa vuoi
Tu dovresti morire
per quel poco che rimani
E io che ti regalo le mie pietre
e tu che nemmeno le guardi
Non so cosa vedessi di me
ma di sicuro non mi hai amata
e io non ho amato te.
Ero solo come una gazza attratta
dallo sfavillare del tuo deserto.

Ma io non sono una gazza
Quello che hai ucciso era la finta me
Ti ho ingannato mentre
cercavo di ingannarmi
E ora io volo via
E tu rimani vuoto
come sempre sei stato
Sfavilla lontano da me
A me spetta il mare aperto
Che gli scorpioni scavino il tuo cuore
Il mio imbrattato lo disinfetterò
con acqua marina.
Ho fame di pesci luccicanti.